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RIFLESSIONI SUL G8 ALLA MADDALENA

Nelle ultime settimane mi è capitato di ripensare di continuo agli ultimi 20 mesi. Ho ordinato e riordinato ricordi, luoghi, fatti, relazioni. Una scavo ossessivo che mi ha aiutato a capire meglio quello che è successo attorno a me, attorno a noi, attorno alla vicenda del nostro progetto per La Maddalena.Non è facile usare l’introspezione per costruire un discorso che ambisce a una qualche generalizzazione. Sono due cose diversissime. Ma questa volta, ancor più delle altre, questo sforzo di esternazione è necessario. E forse anche un po’ utile. Ecco dunque alcuni spunti tra la cronaca, il ricordo e la riflessione sulla professione dell’architettura.

1. Testimone
Credo, insieme a Guido Bertolaso, di essere stato l’unico a seguire l’intera vicenda del progetto di La Maddalena. A registrare, nel mio studio prima e in cantiere poi, i riflessi delle continue evoluzioni politiche e giuridiche che cambiavano in corsa le regole del gioco. C’ero ai primi incontri con Soru e Bertolaso (gennaio 08); quelli a Roma e quelli a La Maddalena con i cittadini e il loro Sindaco. C’ero quando (marzo 08) è arrivata l’Unità di Missione di Balducci; quando Prodi è caduto; quando Berlusconi (nel luglio 08) e Napolitano (agosto) sono venuti a visitare il sito; quando Berlusconi, a lavori ormai in corso, ha cominciato a suggerire altre sedi per il summit; quando Soru (dicembre 08), con nostra grande preoccupazione, si è dimesso da Presidente della Regione. Quando Letta, Bertolaso e Berlusconi, pochi giorni prima di spostare il G8 all’Aquila (il 21 aprile 09) sono venuti a perlustrare, con un sorriso convinto e rassicurante, i cantieri in fase di ultimazione. E c’ero subito dopo, nei momenti del massimo sconforto, con il panico di non essere pagati e la paura che le imprese mollassero, che il cantiere di trasformasse in un immenso eco-mostro, con la rabbia e la vergogna dei maddalenini che non avevano votato Soru. E infine c’ero nei mesi finali, con Bertolaso che tornava sull’isola, con il suo indiscutibile e vittorioso sforzo per portare la Luis Vuitton Cup di vela nell’ex Arsenale (settembre 09); con le denunce di Repubblica sul degrado (inesistente) degli edifici (febbraio 10); con lo scoppio dell’indagine e gli arresti dei nostri committenti.

Nei giorni dopo lo spostamento del G8 a l’Aquila, visitando nell’ex Arsenale di La Maddalena un cantiere finito in tempi miracolosi e pensando ai soldi pubblici spesi per realizzare le opere, mi sono chiesto quali fossero le ragioni vere di una scelta così assurda.
Uno spreco ingiustificabile di risorse.
A Maddalena non c’era ostentazione di lusso che potesse offendere un Paese colpito dalla calamità del terremoto. E a l’Aquila non c’era necessità di un piedistallo planetario che distraesse dalle tragedie della vita quotidiana. Ho cominciato in quei giorni a chiedermi se c’era una regia dietro le ragioni, nobili e meno nobili, che sono state complici di una scelta che ha subito, troppo presto, convinto tutti.

2. Consulente
Se penso a come ho lavorato dal dicembre ‘07 ad oggi mi vengono in mente due periodi.
Nel primo, ho operato come consulente di Renato Soru e Guido Bertolaso per decidere gli assetti urbanistici del G8 a La Maddalena. Il tema era quello di trasformare un evento breve, potente e inutile (il G8) in una situazione stabile e utile per la Sardegna e il territorio dell’arcipelago: la creazione al posto di un ex arsenale militare dismesso e inquinato di un grande polo nautico polivalente, capace di ospitare insieme cantieri, spazi per convegni, scuole di vela, un albergo, aree commerciali e espositive. Con fondali eccezionali e in uno dei posti più belli del mondo.
Ma prima c’era da costruire in pochi mesi la sede del G8, con i suoi requisiti di sicurezza e i suoi protocolli diplomatici.
Per questo abbiamo immaginato che ogni edificio dovesse avere una specie di doppia vita: prima tre giorni “furiosi” di allestimento che, come un vestito da festa, lo addobbassero per il grande evento geopolitico e subito dopo, spariti i vestiti, ecco un’architettura solida, fuori dai riflettori, destinata a durare e dotata di una funzionalità precisa.

Le opere di La Maddalena, come tutte le architetture costruite, sono fatte anche dalle idiosincrasie e dalle contraddizioni che hanno accompagnato la loro ideazione.  Non c’è dubbio che le nostre architetture riflettano uno sforzo esacerbato, teso ad evitare i clichè della geopolitica: uno sforzo per essere anti-celebrative, per immaginare spazi essenziali, per cercare una monumentalità non muscolare, ispirata alla percezione del paesaggio dell’arcipelago invece che ai cerimoniali del G8. Ciò che abbiamo voluto fare è stato così estremo, da denunciare la forza di ciò che non volevamo fare: le architetture sono fatte anche da quello che vogliamo evitare che diventino. Non si scappa dal nemico.

3. Progettista
Nel secondo periodo, iniziato nel luglio 08, il lavoro è cambiato, così come le sue condizioni. Abbiamo lavorato per l’impresa vincitrice della gara di appalto (il cui proprietario, Diego Anemone, è oggi in carcere) ma senza avere più il controllo effettivo del progetto, che era entrato nella vertiginosa (10 mesi per bonificare un’area di 150.000 mq, realizzare 8 edifici e 2 chilometri di banchina) fase attuativa.
Progettavamo gli edifici della parte centrale dell’ex Arsenale militare (è bene ripeterlo: non abbiamo, non avevamo, nulla a che vedere con il progetto dell’ex Ospedale Militare). Eravamo in più di 30, solo a La Maddalena, a disegnare i dettagli e a cercare di controllare scelte di cantiere che spesso potevamo solo registrare sul CAD. Senza direzione lavori e coordinamento della progettazione, esclusi dal computo metrico (ci era permesso solo un supporto a quello architettonico) e facendo ogni volta uno sforzo gigantesco per imporre la nostra presenza quando i committenti venivano a visitare le opere. Ma oltre al desiderio di veder crescere in tempo reale quello che avevamo inventato poche settimane prima, avevamo anche altre ragioni per stare lì: per 10 mesi siamo stati una sorta di ufficio tecnico di appoggio per il Comune di La Maddalena e la Protezione Civile, pronti a rispondere a ogni esigenza di disegni, dati tecnici, esplorazioni progettuali.
Ma questa era soprattutto una nobile consolazione.

In questi anni, nel campo delle opere pubbliche in Italia, anche grazie a protocolli come quello dell’appalto integrato, si è consolidato un gioco perverso di scambio di prestazioni tra politica e architettura. Da un lato, l’architettura è stata chiamata a svolgere funzioni prettamente politiche: a partecipare fin dall’inizio alle strategie di concettualizzazione dell’opera, a preoccuparsi del coinvolgimento degli stakeholder, a considerare il consenso degli elettori come una variabile del progetto. D’altro canto la politica ha avocato a sé alcuni dei passaggi fondamentali del fare architettura : la scelta dei consulenti tecnici, la selezione delle imprese e soprattutto (nelle opere pubbliche) di chi svolge il coordinamento e la direzione dei lavori.
Da controllori implacabili del risultato finale di un progetto siamo diventati ispirati creatori di politiche pubbliche.  Dalla sfera minerale, la nostra competenza sembra essersi spostata a quella delle relazioni immateriali. La psicologia della committenza (lo studio attento delle idiosincrasie e dei segreti desideri di chi ci commissiona le opere) sembra aver sostituito la psicologia degli utenti, ovvero la capacità di controllare le emozioni, le reazioni e le esigenze di chi abiterà gli spazi che immaginiamo.

4. Contabile
A distinguere la fase dell’architettura di carta da quella dell’architettura di pietra, è la contabilità. Da un certo punto in poi le idee smettono di essere pagate a forfait e cominciano a costare parametricamente: un tanto moltiplicato per un numero. Per quel che mi riguarda, i conti del G8 a La Maddalena – sempre limitatamente ai progetti che abbiamo seguito (lotti 4 e 5) – hanno avuto due occasioni di contabilità. Nella prima, a conclusione della nostra consulenza al preliminare, abbiamo registrato dei costi che sono serviti per la gara di appalto integrato per le imprese inserite nella lista della Protezione Civile. Nella seconda, in occasione del computo metrico architettonico (a cui dovevamo dare solo un supporto di disegni e dati), abbiamo registrato  una somma sensibilmente più alta. Ma considerando gli imprevisti di cantiere e le inevitabili approssimazioni di un computo basato su un preliminare, erano cifre ragionevoli. A far sballare i conti ci avevano (già) pensato le “maggiorazioni” previste nell’appalto di gare: ben il 57% di aumenti dei compensi alle imprese dovute alle loro difficoltà a lavorare su tre turni, a lavorare su “un’isola di un’isola”, a “rispettare il crono programma”.

La maggiorazione è il contrario del ribasso; se il ribasso è un potenziale competitivo a disposizione del concorrente alla gara, la maggiorazione ha la potenza inappellabile di una pre-condizione. Garantisce in partenza una compensazione per imprese che si trovano in una condizione di emergenza.  Ma l’emergenza, in questo caso era opinabile, se non chiaramente ridicola. La maggiorazione era piuttosto un premio preventivo per la disponibilità a operare con urgenza. L’urgenza però era selettiva: a La Maddalena c’erano compensi “maggiorati” per le imprese, ma non per i progettisti; stipendi “maggiorati”, assolutamente eccessivi, per i tecnici dell’Unità di Missione e i direttori dei lavori, ma non per gli operai edili. L’urgenza maggiorata…beh, non era cosa per tutti…

5. Regista
Mi piace lavorare in gruppo, stando alla regia. Credo di saper scegliere molto bene chi lavora con me e valorizzare i talenti di chi scelgo. Credo anche di essere spesso disorganizzato, poco razionale e perfino a volte approssimativo, e forse proprio queste evidenti debolezze rendono accettabile a chi lavora con me una presenza altrimenti prevaricante.
Non ho nessun dubbio che il gruppo di architetti che ha lavorato con me sul G8 costituisca oggi una risorsa per l’architettura italiana. Sono giovani (media 30 anni), bravi, colti e motivati, adrenalinici quanto serve e riflessivi quando serve (cioè anche quando si è adrenalinici). Amano (come me) la politica non meno dell’architettura; e come me si illudono che si possa governare i fatti della politica controllando i fatti dell’architettura. Abbiamo vissuto insieme un periodo metereologicamente straordinario, su un’isola di un’isola, con venti che portavano giornate grigie e burrasche che portavano sole e luce; a contatto con le raffiche, i temporali, le illusorie schiarite e tutte le imprevedibili e spesso ridicole sfaccettature della politica italiana.  Sempre a contatto con le aspettative e le delusioni dei cittadini di la Maddalena. E ci siamo tutti drogati del vertiginoso intercedere di eventi che ci avvolgeva e ci ha lasciato sfiniti e senza più l’ossigeno dell’ansia, della sorpresa, delle scadenze impossibili, dei colpi di scena. Non ci siamo ancora ripresi.

Sappiamo, dovremmo sapere, che la vita di un’architettura inizia ben prima della nostra presenza di architetti, ben prima della fase dell’ideazione; inizia quando l’architettura viene decisa, finanziata, programmata da chi l’ha voluta e richiesta. Ma neppure questa consapevolezza ci aiuta ad accettare il fatto che – dopo quel periodo intenso, e i fin dei conti limitato nel tempo, che è il progetto – ad un certo punto dobbiamo necessariamente distaccarci dalla vita di una nostra architettura. Mollarla, accettare che viva senza più alcun legame con noi.
La verità è che, quando ci appassionano e arrivano ad essere costruite, queste cose di vetro, ferro, cemento riescono a catalizzare un’affettività incontrollabile; qualcosa che rende difficile anche solo l’idea di abbandonarle a sé stesse.

6. vittima
Sono stato vittima di me stesso, delle mie manie di grandezza, della scelta di coinvolgere 53 architetti (quasi tutti lavoravano con me per la prima volta) per fare al meglio un lavoro che forse avrei potuto fare (non meglio, ma bene) nel mio studio milanese con 15 fidati collaboratori. Ma quello che ho guadagnato in curiosità, relazioni, entusiasmo, l’ho perso in organizzazione e soprattutto in risorse economiche. Questo lavoro è stato un disastro finanziario. Ho già speso quasi tutto quello che ho guadagnato e oggi sono terrorizzato che l’impresa non mi fornisca il saldo finale. Dopo aver costruito in 10 mesi quello che di solito un architetto italiano costruisce in 15 anni, rischio in pochi mesi di chiudere uno studio professionale che ha 25 anni di vita. Non male come doppia accelerazione.

Ma per qualche giorno sono stato anche vittima delle aggressioni via web di colleghi, a volte ignoti. Che sull’onda dell’emotività mediatica percepiscono come un fastidio ogni pur necessario distinguo, ogni ragionamento che entra davvero nel merito di quanto è successo. Che soffrono il successo altrui e non sanno convertire la gelosia in competizione. Che sono arrivati fino a scrivere il falso, il falso on-line, pur di trascinarti dentro un giudizio di scarsa moralità. Che evidentemente non digeriscono che si possa fare buona architettura pur senza rinunciare alla passione politica e civile.
L’invidia che non si trasforma in un fertile spirito competitivo è un tarlo (auto)logorante.  Di cui l’architettura italiana ha oggi il primato.

7. Complice
Mi sono continuamente chiesto in questi giorni se sono stato complice di quanto è successo. Credo di esserlo stato, involontariamente. Ovviamente non c’è stato nulla di quanto ho visto o percepito che mi abbia fatto pensare agli accordi illegali e sottobanco di cui parlano le indagini in corso: tra imprese e committenti, tra rappresentanti dello Stato e privati appaltatori. Se avessimo avuto anche solo una prova di questi contatti, saremmo andati subito a denunciare la cosa alla Magistratura. Ma l’aver accettato un ruolo di fatto marginale dal punto di vista delle decisioni e nel periodo più importante del progetto, quello di realizzazione delle opere, mi ha di fatto impedito di rendermi conto direttamente di eventuali irregolarità, pur obbligandoci ad una presenza continua (anche se spesso mal tollerata) a latere del cantiere. Ho due giustificazioni: la nostra totale preoccupazione sui tempi (che è stata per mesi la vera ossessione quotidiana) e la presenza nel progetto, come garanti, dei rappresentanti delle più alte cariche dello Stato. Ma sono stato complice di una condizione di controllo ridotto; della presunzione di essere più forti di chi, controllandoci, ci teneva distanti dalle decisioni.

La Protezione Civile è un “esercito buono” di giovani donne e uomini; migliaia di volontari  appassionati e disponibili, con una disciplina austera ed affettiva. Ma a La Maddalena, dopo poche settimane, la Protezione Civile ha abdicato ad un ruolo che forse non avrebbe saputo nemmeno svolgere; al suo posto, al posto delle donne e degli uomini in maglietta blu sono arrivati con piglio di efficienza e rapidità i tecnici dell’”unità di missione per i 150 anni della Repubblica italiana”.  Questa è una verità ancora non detta.
A La Maddalena, gli architetti con cui collaboravo giravano con macchine scassate ed improbabili, e abitavano in gruppo in appartamenti del centro. I tecnici dell’Unità di Missione – in Rayban-  giravano con Audi e BMW e avevano affittato ville sulle coste dell’isola.  Fuori dagli uffici e dal cantiere era impossibile che i due gruppi si incontrassero, posti e relazioni erano diversi.  A volte le differenze comportamentali sono un limite alla comunicazione, a volte una difesa da relazioni pericolose. I dettagli, in una vicenda complessa, sono sempre micidiali.

8. Giornalista
In pochi mesi, da direttore di un periodico di settore, ho vissuto sulla mia pelle tre forme di conflitto tra cronaca e architettura.
In una prima fase, a vincere era stata la cronaca d’inchiesta. Prima e durante il cantiere, eravamo “secretati”, cioè obbligati al silenzio in seguito ad un’ordinanza del Governo Prodi. Eppure, nonostante noi non potessimo scrivere di quello che facevamo e vedevamo, siamo stati testimoni di un giornalismo di indagine che entrava con facilità nella cortina di protezione del G8 e del cantiere: si muoveva più agile e veloce di noi conquistando sul territorio informazioni che noi non potevamo avere; e le raccontava – da lontano – sui periodici di informazione politica. Mentre nessuno conosceva quello che stavamo facendo (non avremmo potuto, per fare un solo esempio, annunciare che le opere per il G8 a La Maddalena, già in Aprile erano quasi pronte, finite, disponibili), grazie a questa cronaca da investigazione abbiamo cominciato a capire che qualcosa non funzionava lì vicino a noi, nella regia dei lavori.
Finito il cantiere, in maggio, è iniziata una seconda fase, in cui a prendere il sopravvento è stata – finalmente – l’architettura realizzata. I quotidiani italiani e internazionali (dal Corriere della Sera alla Frankfurter Allgemeine Zeitung) hanno “scoperto” in ritardo che i risultati di un G8 mai svolto erano degni di attenzione. E subito dopo sono arrivate le riviste di settore (A+U, Icon, Mark, Lotus International), quasi a consolidare la fine della fase dell’attenzione evenemenziale della cronaca: finita l’attualità, ecco l’architettura .
Ma è durato poco: nelle ultime settimane è tornata, violenta e per molti versi liberatoria, la cronaca nella sua versione politico-giudiziaria. Qui a dettare il tempo erano e sono le intercettazioni: trascrizioni e voci fuori campo di conversazioni proiettati come sottotitoli sulle immagini delle nostre architetture.  Costrette, povere loro, a una nuova involontaria paternità.

Sono sempre stato attratto dal rapporto tra fatti di cronaca e architettura. Per quattro anni, ogni mese, nelle prime pagine di Domus ho pubblicato immagini di architetture celebri toccate –inconsapevolmente-  dalla cronaca. E mi sono più volte chiesto perché così spesso la cronaca sfiori le opere di architettura, cosa la attragga attorno a spazi e edifici che il codice della cultura considera “opere”. Se è il simbolismo dell’architettura che attira le vicende di cronaca, che vi trovano un contrappunto o un piedestallo mediatico. O se piuttosto è la prospettiva scelta dai giornalisti per registrare la cronaca ad includere – come un valore aggiunto nell’inquadratura, un tratto curioso – la presenza accidentale delle opere di architettura.
Sta di fatto che la nemesi ha voluto che la nostra più bella architettura diventasse il simbolo – sui giornali e le tv di tutto il mondo- di una brutta vicenda italiana di corruzione.
Mi consola pensare che c’è un senso in tutto questo. Pochi mesi fa (ben prima che questa vicenda giudiziaria venisse alla luce), scegliendo come copertina del libro “Effetto Maddalena” l’immagine di un elicottero dei carabinieri che vola sopra la Casa del Mare, avevamo già capito che la nostra architettura era destinata ad avere la cronaca quotidiana nel suo sangue.

9. Architetto
Le opere che abbiamo immaginato, sono state costruite. E, grazie anche alla nostra o
stinazione, sono esattamente quello che volevamo, dove lo volevamo.
Sono là, al posto di un ex arsenale militare abbandonato che fino a pochi mesi fa rappresentava una bomba ecologica e che è stato bonificato nei fondali e nelle banchine. Sono una risorsa formidabile per un’arcipelago che ogni giorno, da maggio a fine settembre, viene usato come solo vasca da bagno per migliaia di imbarcazioni lasciano soldi e contratti di locazione nei porticcioli senza città della costa Smeralda e nei cantieri di Olbia. Il polo nautico voluto da Renato Soru è oggi una realtà, anche se è ancora un guscio. La Vuitton Cup, con la vela sportiva, il turismo compatibile con l’ambiente, è la migliore delle inaugurazioni possibili, ma il destino delle strutture è ancora in parte incerto. Quello che abbiamo progettato è un porto mediterraneo, a contatto con una città vera anche se in difficoltà; un porto pubblico, nella sua gran parte aperto ai cittadini e ai visitatori, che può anche ospitare aree private e ad accesso controllato; un porto polivalente, che può dar lavoro a centinaia di giovani isolani.
Basta poco per compromettere quello che abbiamo fatto. Ma ce l’abbiamo fatta.

Strana professione la nostra. Abbiamo in mano le cose del mondo, ne controlliamo la costruzione, la trasformazione, perfino l’usura. E siamo spesso convinti che siano gli spazi che progettiamo e vediamo costruire a condizionare le scelte della politica, della cultura, dell’economia.  Eppure non c’è bellezza o efficienza di quel che costruiamo che giustifichi o legittimi – neppure retrospettivamente – comportamenti e scelte indegni come quelle che in questi giorni stiamo leggendo sui giornali.
L’implacabile, prepotente arroganza dell’architettura costruita – che punta sui tempi lunghi del suo successo – è poca cosa di fronte all’indignazione di un intero Paese.
Ma è tutto quello che ci resta e a cui, con un misto di dignità e di ironia, oggi ci aggrappiamo.